Sono al centro della nostra tradizione gastronomica, le loro origini risalgono alla nascita stessa della cultura mediterranea e il loro consumo moderato è contemplato nei regimi alimentari ufficiali. E poi quelli buoni, fatti con latte crudo, in alpeggio e salvaguardando i saperi dei casari tramandati da generazioni, sono i protagonisti di Cheese 2017.
Ma quale approccio a questo alimento ci permette di salvaguardare gusto e salute senza farci trascinare dalle mode dei prodotti lattiero-caseari marketing oriented? Possiamo raggiungere un apporto equilibrato alle nostre esigenze prediligendo prodotti di qualità? Ne abbiamo parlato con il dottor Andrea Pezzana, direttore di dietetica e nutrizione clinica all’ospedale San Giovanni Bosco di Torino e responsabile Salute di Slow Food Italia: «I formaggi sono alimenti altamente proteici e a elevato contenuto di grassi, ma hanno anche una buona presenza di fosforo, calcio e vitamina D. È senza dubbio consigliabile alternare il loro consumo a proteine di origine animale e vegetale nel corso della settimana, inserendoli in una dieta ricca di frutta e verdura».
Forse però il punto di vista più interessante e meno scontato, in un mondo in cui vengono contemplati solo gli estremi falsamente salutistici dei prodotti light e l’abbondanza sconsiderata del cibo supersize, è quello che considera i formaggi da più angolature e ne articola il consumo in base alle fasce d’età: «Riguardo ai prodotti lattiero-caseari possiamo muoverci suggerendo delle “precauzioni d’uso” a un individuo giovane adulto, consigliando cioè un consumo moderato. Invece, nell’età dell’accrescimento e soprattutto in età senile, quando l’appetito è scarso e il rischio di malnutrizione per mancanza di proteine alto, possiamo suggerire delle “attenzioni all’uso”. Un Parmigiano Reggiano, un pecorino o un altro formaggio a pasta dura ben stagionato è un concentrato di salute che conta fino a 25/28 grammi di proteine per 100 grammi».
Il consiglio per tutti gli amanti del formaggio è dunque di prestare attenzione al momento dell’acquisto: piuttosto che consumarne più volte nell’arco della settimana è meglio ridurre a un paio di porzioni scegliendo bene tipologia, provenienza e tipo di lavorazione. Sulla pizza è meglio una Mozzarella di Bufala piuttosto che un formaggio di fusione, nella minestra una Robiola di Roccaverano piuttosto che una crema spalmabile. E che dire di un gustoso Bra tenero in un’insalata di pasta o di riso al posto di una caciotta senza origine né anima?
Ma quali sono i falsi miti in cui si rischia di cadere in fatto di formaggi?
L’etichetta, ovvero tutti i formaggi sono uguali
Partiamo dalle basi. Nel 99% dei formaggi in commercio troveremo sempre la stessa etichetta: latte, sale, caglio. Ma come è possibile che un generico formaggio a pasta dura e una Fontina d’alpeggio abbiano gli stessi ingredienti? Eppure la legislazione in fatto di formaggi richiede solo queste poche indicazioni. Ma se territorio e alpeggio, alimentazione e benessere degli animali, lavorazione e stagionatura, fanno la differenza in un formaggio, allora varrebbe la pena aiutare i produttori a raccontare la loro attività e il loro approccio alla produzione, che non riguarda solo l’ambito lavorativo ma per ovvi motivi rappresenta una scelta di vita. Dall’altro lato, indicazioni più dettagliate, come le etichette narranti di Slow Food, aiutano il consumatore a scegliere non solo il gusto del formaggio, ma anche il suo impatto sull’ambiente e l’appartenenza territoriale, il modo in cui l’animale vive, magari libero di pascolare a 2000 metri di altitudine, e le ricadute che il suo acquisto ha sull’economia locale.
«Pizza, ti mangio solo se mi dici da dove viene la tua mozzarella!» ovvero l’indicazione obbligatoria dell’origine per i prodotti lattiero-caseari
Ormai da qualche mese nei prodotti lattiero-caseari abbiamo cominciato a vedere queste nuove etichette che indicano la provenienza del latte e il paese in cui avviene il condizionamento. “Paese di mungitura: latte di Paesi non Ue”, piuttosto che “Paesi Ue” oppure “Italia” se tutto il latte proviene da allevamenti italiani. Ma quando si parla di latti ci riferiamo a un universo dalle mille sfumature che non riguardano solamente l’animale che li produce. Una bianca modenese e una podolica ci regalano latti dalle caratteristiche diverse, così come non c’è paragone tra una vacca che bruca i prati ricchi di erbe e fiori della Valle d’Aosta e una, anche della stessa razza, allevata in una stalla in pianura e alimentata con insilati. Figuriamoci se una dicitura che copre tutti i Paesi dell’Unione europea o l’intero mondo può essere soddisfacente. Il problema più grosso che l’etichetta non può risolvere sono quei semilavorati dai quali dipendiamo così tanto per soddisfare l’esigenza di Made in Italy a tutti i costi, come la cagliata congelata proveniente dall’estero per la produzione di mozzarella (prodotto non Dop come quella di bufala). Se la compriamo in confezione integra, grazie alla nuova etichetta, potremo scegliere cosa consumare ma se la mangiamo sulla pizza? Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato…
Fermenti industriali: non fanno male, ma nemmeno bene
Sono uno dei focus di quest’anno e ai formaggi che non li contengono Cheese 2017 dedica lo Spazio Libero. I fermenti industriali vengono aggiungi al latte quando le condizioni igienico-sanitarie dei locali di mungitura sono così perfette da azzerare la carica batterica che il latte deve avere per far partire la coagulazione. In alpeggio, quando la mungitura avviene a mano, i batteri naturalmente presenti nella stalla fanno il loro lavoro, ma nei caseifici tutto ciò è impossibile e la cosa più semplice per il casaro è aggiungere i cosiddetti starter. Questi però uniformano il gusto del formaggio, anche quando il latte di partenza è crudo e di ottima qualità. «In base alla bibliografia disponibile fino a oggi, i fermenti industriali non fanno male e inoltre scompaiono nel processo di acidificazione del latte. Scegliendo però un formaggio con starter non autoctoni perdiamo l’occasione di nutrire il nostro corpo con tutta quella carica di fermenti lattici vivi che fanno così bene alla nostra salute. Con il risultato che magari poi siamo costretti ad assumere integratori alimentari per ripristinare l’equilibrio della flora batterica», afferma Pezzana.
Formaggi light (che siccome sono light ne mangi il doppio)
Paste filate (fiordilatte e bocconcini), crescenze, “caprini di vacca”, ricotte nella versione light e altri prodotti che non si rifanno ad alcuna tipologia tradizionale, come i fiocchi di latte, hanno ormai invaso gli scaffali dei supermercati, complici le mode dietetiche e salutistiche degli ultimi anni. Il bersaglio dell’alleggerimento è il grasso, che però non è una componente inerte del formaggio in quanto partecipa alla struttura del coagulo, fornisce quei caratteri di spalmabilità che ci piacciono tanto, di morbidezza e, soprattutto, di sapore. Come si fa quindi? È la tecnologia a venirci in aiuto per aumentare la morbidezza quando vengono ridotti i grassi. Cambiano così i tempi e le temperature della cagliata che viene anche sottoposta a trattamenti particolari o in alcuni formaggi, ad esempio, vengono aggiunti coadiuvanti tecnologici. Il fatto è che si tratta di prodotti manipolati, il cui profilo sensoriale è neutro, la consistenza gessosa, gli additivi contenuti nulla hanno a che vedere con il formaggio. Senza contare che la maggior parte di noi può essere tentata di mangiarne il doppio: tanto è light! Per non rinunciare al gusto e alla qualità, sarebbe certo più saggio mangiare in quantità più consone i prodotti tradizionali.
Sei intollerante al lattosio? Semaforo verde per i formaggi stagionati!
Se è vero che intolleranze e allergie sono in crescita è anche necessario chiarire per bene di cosa si sta parlando e non fare di tutta l’erba un fascio: le uniche intolleranze accertate scientificamente sono quelle al lattosio e al glutine. Le persone gravemente intolleranti al lattosio non producono l’enzima in grado di scindere lo zucchero complesso presente nel latte nelle due molecole, glucosio e galattosio, più facilmente digeribili. Le grandi aziende leader del mercato stanno cavalcando quest’onda lanciando latticini senza lattosio o a basso o ridotto contenuto di lattosio. Ma ha senso acquistare prodotti che hanno subito una manipolazione e hanno anche un costo maggiore o si può scegliere di consumare altro? «Il lattosio negli alimenti è un problema solo nei prodotti lattiero-caseari freschi, nei quali la molecola non ha ancora subito il processo di trasformazione. E quindi, oltre al latte, anche ricotte, yogurt, mozzarelle, robiole. Nei prodotti stagionati anche solo 4 o 5 mesi il lattosio diventa quell’acido lattico fondamentale per determinare le caratteristiche organolettiche di un formaggio. Quindi via libera a Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Pecorino e tutti quei formaggi stagionati a pasta dura che naturalmente non contengono più lattosio. Un valore aggiunto per il gusto e le proprietà nutritive e un’occasione di risparmio per il portafogli», chiarisce Pezzana.
Per maggiori informazioni: Associazione italiana latto-intolleranti, www.associazioneaili.it
Sei intollerante al glutine? Aspetta, cosa c’entra il glutine nei formaggi?
Niente, o almeno dovrebbe… Nel senso che i formaggi con quel “latte, sale, caglio”, non contemplano ingredienti a rischio per i celiaci. Il problema comincia quando si scelgono prodotti lattiero-caseari frutto dell’evoluzione tecnologica, come ad esempio il burro light che può contenere amido e gelificanti, aggiunti in sostituzione del grasso per ottenere un’emulsione di caratteristiche simili a quelle del burro “tradizionale”. Lo stesso vale per i formaggi fusi, a fette, spalmabili e i dessert di formaggio, per il loro contenuto di addensanti, gelificanti e aromi. Occhio anche agli yogurt alla frutta, al “gusto di…”, cremosi, che possono contenere purea e semilavorati di frutta, preparazioni dolciarie, aromi e addensanti. Anche lo yogurt bianco cremoso con aggiunta di addensanti, aromi, preparazioni dolciarie o altre sostanze può contenere potenziali fonti di glutine.
Il fatto è che un intollerante al glutine potrebbe non porsi il problema del rischio per la propria salute relativo ai formaggi e quindi non guardare l’etichetta. Del resto la domanda potrebbe anche sorgere spontanea: cosa ci fa un ingrediente che contiene glutine in un formaggio?
Fonte: Associazione italiana celiachia, www.celiachia.it
“Bianco come il latte” a chi?
Siamo abituati a bere latte intero di vacca bianchissimo e a consumare formaggi e burro che per antonomasia sono bianchi, convinti che il colore sia indice di qualità. E ci abbiamo azzeccato per fortuna. Già, ma quale colore? Non si tratta di una questione di lana caprina, il colore è dovuto alla presenza di beta carotene, di cui è ricca l’erba fresca, che carica di pigmenti il latte regalando al formaggio bellissime sfumature di giallo. E non finisce qui perché il beta carotene, uno dei più importanti antiossidanti e fonte di vitamina A, è solo la punta dell’iceberg. Le erbe e i fiori di montagna sono ricchissimi di queste sostanze che ci regalano aroma e gusto intensi e anche nutrimento di qualità per il nostro corpo. E allora perché non li consumiamo? Perché il latte degli allevamenti intensivi invece è bianco, così come i formaggi che siamo abituati a vedere al supermercato. Il problema come al solito sta nella filiera. Chi glielo fa fare agli allevatori di portare le vacche in alpeggio quando il loro latte non è accettato dai casari, il loro burro o formaggio non è capito dai consumatori? Per rimanere in una piccola nicchia? Guadagnando bene forse ci si potrebbe fare un pensierino. Purtroppo non c’è nemmeno questo, se si pensa che la differenza tra una Fontina d’alpeggio e una di stalla (stiamo parlando anche di quella invernale) è di qualche euro.
FONTE UFFICIALE : comunicato stampa e foto sono tratti dal sito www.cheese.slowfood.it