Augusto Tirelli, romano, classe 1992. Dopo aver terminato gli studi al liceo scientifico, si è laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali. Ha sempre amato il Cinema, e durante l’Università ha iniziato ad avvicinarsi alla settima arte di più, scrivendo per vari siti che si occupavano di recensioni, fino a quando ha sentito la necessità di mettersi in gioco a un livello più alto, che ha portato alla prima stesura del corto Caffè Corretto e poi al set vero e proprio. Per Augusto, la concezione di “arte” ormai è sdoganata. Non si sente un’artista, ma un artigiano. Lo abbiamo intervistato.
Augusto, conosciamoci meglio: come nasce la tua passione per la settima arte?Uno dei miei primi ricordi è mio padre che mi porta al Cinema dopo essere stato in ufficio. Siamo andati a vedere Un topolino sotto sfratto di Verbinski, all’ex universal a via Bari. A dire il vero, in tutti i miei primi ricordi “cinematografici” c’è mio padre. Direi quindi che il primo imprinting lo ho avuto da lui, imprinting che va ben oltre il Cinema. Ha influenzato i miei gusti musicali e letterari, e inevitabilmente anche quelli cinematografici.
Quali sono i tuoi modelli di riferimento? Registi, attori, nel tuo ideale pantheon?Non ne ho di fissi, guardo di tutto bene o male. Succede molto spesso che un regista abbia fatto un film che adoro e poi ne abbia girato uno che detesto. Ari Aster, per esempio: ho amato Hereditary ma odiato Midsommar. In generale cerco di prendere quello che più mi piace da chiunque, ma se devo scegliere, direi Ridley Scott, Clint Eastwood, Cronenberg, Sergio Leone, Lucio Fulci, Carpenter, ma ne rimangono tanti fuori. Fra i nuovi invece mi piace molto Craig Zahler; già Bone Tomahawk era ottimo ed è incredibile come sia riuscito a spaziare su altri generi mantenendo sempre una voce e visione inconfondibile.
Sei produttore e sceneggiatore di Caffè Corretto , corto diretto da Domenico Pisani. Come è nata l’idea di metterti in gioco dietro la macchina da presa?
Durante l’università ho avuto modo di collaborare con alcuni siti che si occupano di scrivere recensioni; era un buon modo per vedere film senza pagare, ma poi mi sono reso conto che lo facevamo senza padronanza del linguaggio. La prima spinta l’ho avuta lì. Ho pensato che avrei dovuto conoscere bene qualcosa prima di poterne parlare. Da quel semplice ragionamento è venuto poi tutto il resto, fino a un investimento importante come un cortometraggio.
Come è stato vestire “doppi” panni, e quale ti è sembrato “calzarti” meglio?
Non saprei rispondere: questo è stato il mio primo lavoro e non ho un termine di paragone! La scrittura per me è un’attività a 360 gradi, coinvolge molti aspetti della mia vita oltre a quello attinente allo schermo. Non ero mai stato su un set quindi mi sono goduto l’esperienza fino in fondo. Ne ho amato la frenesia, l’energia e la stanchezza a fine giornata. È un caos vitale e non vedo l’ora di poterlo far ripartire.
Il corto richiama le atmosfere della grande tradizione horror italiana, un genere che ha vissuto alterne vicende senza mai imporsi completamente. Come mai?
Credo che in Italia manchi un po’ la concezione di Cinema inteso come intrattenimento. Pare che se non si facciano commedie o film comici si debba fare per forza film d’autore (che spesso non hanno pubblico se non in ambiente festivaliero) o comunque un film “impegnato”. Una scelta rispettabilissima che non condivido. Vengo dall’altra parte dello schermo, sono un avido consumatore: posso non sapere cosa voglio vedere, ma so bene cosa non voglio vedere. Negli ultimi anni si è smesso di pensare a cosa vuole vedere il pubblico e il focus si è spostato sul pensiero dell’autore. Il Cinema è prima di tutto intrattenimento, poi incidentalmente può diventare arte, ma un prodotto che non sia fruibile da tutti su più livelli è prodotto sbagliato. Ridley Scott per esempio arriva dalla pubblicità e nei suoi lavori si nota molto. Blade Runner può essere visto come un maestoso noir di fantascienza ma c’è anche altro: una ricerca sulla natura umana, un interrogativo sul ruolo delle macchine nel nostro presente, una profonda riflessione ambientale. È un film d’autore, cerebrale, ma è anche un film che funziona benissimo nei suoi generi di appartenenza: un lavoro perfetto. C’è molta paura di fare “intrattenimento” per non essere etichettati come “autori di serie b”, quando abbiamo un pantheon di Maestri da cui attinge tutto il mondo. Perché rifarsi a Fulci, a Bava, a Leone, ad Argento, a Corbucci dovrebbe essere visto come un malus? Per fortuna questa tendenza si sta invertendo; negli ultimi anni sono usciti dei lavori molto validi come quelli di Daniele Misischia e Roberto De Feo, anche Avati è tornato a fare Cinema di Genere; in generale mi sembra che le produzioni stesse siano più interessate a finanziare questo tipo di film rispetto a qualche anno fa.
La concezione di “arte” ormai è sdoganata. Ti senti non tanto un’artista, quanto un artigiano. Ci aiuti a chiarire meglio questa tua posizione?
Considero Artista chi è in grado di dare corpo con le proprie mani a una sua visione; io non so tenere una macchina da presa e non ho una formazione da regista. Ho una buona predisposizione a raccontare, e ho avuto bisogno di professionisti che mi aiutassero a dare vita alla mia visione.
La pandemia e la crisi sanitaria da oltre un anno ha portato alla chiusura delle sale. Sei fiducioso per una ripartenza che possa prevedere già dai prossimi mesi la riapertura al pubblico di cinema e teatri?
La Sala dovrà essere ripensata: anche se dovessimo uscire dalla pandemia in tempi brevi, penso che rimarrà comunque una forte sfiducia nei confronti del luogo fisico, come rimarrà nei confronti di molti altri luoghi di aggregazione. Oltre a questo, i vari servizi di streaming offrono una comodità a cui lo spettatore casuale difficilmente rinuncia. Può sopravvivere, ma si deve trasformare. Sul teatro non saprei, è un mondo che non conosco ma so che ha dinamiche molto diverse.