Fatta l’Italia, bisognava fare l’italiano. Il completamento del processo di unificazione linguistica della nazione si deve all’avvento della radio, e soprattutto della televisione. Già Dante, nel De vulgari eloquentia, aveva progettato l’unificazione linguistica del paese partendo dal presupposto che tutti abbiamo bisogno di esprimerci in una lingua comune: un volgare ideale, illustre, cardinale, aulico e curiale.
Un progetto di unificazione che in parte è rimasto incompleto perché i giornali, ma soprattutto la tv e i nuovi media hanno smesso di svolgere quel ruolo creativo e pedagogico che avevano ai loro esordi. La lingua della comunicazione si è impoverita al punto che difficilmente può aiutare a comprendere la complessità del mondo in cui viviamo. Quell’eloquenza della quale tutti abbiamo bisogno per esprimerci in modo corretto e comprensibile, di cui parla Dante, non l’abbiamo raggiunta.
Cosa può cercare di frenare un declino verso una lingua povera e volgare? Forse lo può e lo deve fare il giornalismo culturale, che ha il compito di diffondere e analizzare i temi più complessi del mondo in cui viviamo. E che può farlo con una lingua che illumini le cose di cui parla.
Il passaggio dal maistream al web e con esso alla attività di socialnetworking ha con molta probabilità ulteriormente modificato la lingua e il linguaggio.
La grande ricchezza, anche semioticamente intesa, della parola ha una sua forza sia che la si usi nel mainstream che nella rete.
Dalle citazioni dotte ai meme, la lingua passa anche attraverso l’immagine e attraverso le tante forme della cultura: dall’arte visiva alla letteratura, dall’economia alla architettura e attraverso tanto altro ancora…
Da questo incipit parte la riflessione e il lavoro di Fgcult2021, la nona edizione.