Dov’eravamo rimasti? Ai Maneskin trionfanti all’interno di un teatro – l’Ariston – con i palloncini al posto degli ospiti in platea. Un doloroso ricordo, quello glaciale delle poltroncine vuote – se si pensa a ciò che abbiamo vissuto negli ultimi due anni, a livello psico-emotivo, oltre che economico e sociale.
Un anno dopo la sensazione comune – a partire proprio dal ritorno in sala del pubblico (seppure con mascherina e greenpass) è che il Festival di Sanremo – da sempre termometro del Belpaese – ha vissuto cinque serate come una festa di fine pandemia, quasi come un segnale di liberazione.
Una nuova normalità è vicina. Lo si percepisce anche dal record storico di share che ha accompagnato tutte queste sere e che certifica la voglia di ripresa, di allegria e spensieratezza. Tutte cose che avevamo quasi dimenticato.
Proprio come ha fatto Fiorello nello sketch sulle canzoni tristi trasformate in allegre. O come Zalone che con l’ironica “Pandemia ora che vai via” ha deriso i virologi-star, mettendo a nudo le loro contraddizioni. O il ballare – mentre le discoteche attendono l’ok a riaprire – al ritmo scatenato dei Meduza, o alle note di Cesare Cremonini, o al medley di un Lorenzo Jovanotti in stato di grazia.
E non solo, perché il Sanremo-ter di Amadeus (Ama, preparati al quarto, perché all’orizzonte c’è il vuoto dopo di te!) conferma la centralità della musica. Non c’è bisogno di spendere milioni per aver da oltreoceano la Sharon Stone o il Mike Tyson che in pochi minuti di apparizione sul palco non hanno davvero nulla da raccontare. E non c’era bisogno di una pandemia mondiale per impedire ai superospiti di viaggiare, perché la barra dritta sulla musica, che ha relegato la parte di spettacolo in secondo piano, l’aveva già ben tracciata Carlo Conti. Amadeus l’ha portata a livelli altissimi e di qualità, mixando sapientemente giovani che conquistano la scena internazionale, come i vincitori Mahmood e Blanco, e “grandi vecchi” della nostra musica come Gianni Morandi che, accendendo la platea come pochi, ci ricordano come la grinta e la personalità non siano mai una questione anagrafica.
Il Festival approda nel terzo millennio in questo secondo decennio di ventunesimo secolo. La liturgia è cambiata e ce lo ha dimostrato la presenza sul palco della mitica Drusilla Foer. Un successo non solo in termini di ascolto, ma anche simbolico contro le discriminazioni, per cui ci auguriamo ci siano sempre più Drusilla ovunque.
Tutte queste cose hanno contribuito a rendere questo Festival l’edizione della normalità. Era stato chiesto una sola cosa: tornare a farci sorridere e gioire insieme. Riuscendoci in pieno!