E’ uscito ieri 24 febbraio per Infinito Edizioni il primo romanzo firmato dall’attrice, autrice e compositrice Martina Galletta: La Dimora degli Dei.
Al suo debutto alla scrittura di un romanzo, Martina Galletta parte da questa tradizione, con un omaggio conclamato alle signore del giallo, per dare vita a un nuovo noir di genere, ambientato tra le due guerre, proponendo una sua lettura del ruolo femminile a ridosso della seconda guerra mondiale, dando vita a un racconto di emancipazione femminile e coraggio, con leggerezza e ironia.
Martina Galletta milanese di nascita, fin da bambina ha solo tre cose in testa: il Teatro, la Musica e la Scrittura. Riesce a coronare il suo sogno di fare l’attrice diplomandosi, ancora giovanissima, alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi. Da allora lavora nei più prestigiosi teatri italiani: dal Piccolo Teatro di Milano, al fianco di Giulia Lazzarini e Andrea Jonasson, al Teatro Argentina di Roma, dal Teatro Bellini di Napoli al Teatro dell’Elfo di Milano. Roberta Torre la sceglie per il suo premiatissimo film I baci mai dati, che sbarca al 67° Festival di Venezia; Luca Manfredi la trasforma in Giulietta Masina nel film Permette? Alberto Sordi.
Anche la Musica accompagna il suo percorso: compone ed esegue la colonna sonora dello spettacolo Lezione da Sarah, dove recita al fianco di Galatea Ranzi. Canta e suona fisarmonica, sintetizzatore e pianoforte. Ha sempre amato scrivere poesie, racconti, copioni teatrali.
Le nostre #settedomande partono proprio da qui: da questo caleidoscopio di arti e passioni che pervadono l’universo di Martina.
Attrice, musicista. E da poche ore anche scrittrice. Cos’è l’arte per Martina?
Se dico l’unica ragione di vita risulto melodrammatica? Scherzi a parte, vivo in questo mondo da sempre. Mi considero una donna di Teatro, una persona che in Teatro è nata, cresciuta e spera di morirci (il più tardi possibile, sia chiaro). Le altre forme espressive come la musica e la scrittura non sono che altre facce della stessa medaglia. Credo che l’essenziale sia l’esigenza creativa, che poi si dipana e trova sfogo attraverso vari linguaggi, varie forme (nuove forme, anche, per dirla alla Kostia de “Il Gabbiano” di Čechov). L’arte è l’unico strumento che abbiamo per rielaborare la realtà in modo attivo. Siamo nell’era della passività, della solitudine, della mancanza di contatto: solo l’arte e la cultura possono aiutarci a decodificare il periodo di grande difficoltà che stiamo vivendo e fornirci gli strumenti per sopravvivere e per evolverci.
Partiamo dall’ultima “fatica”. La Dimora degli Dei – Infinito Edizioni – è il tuo primo romanzo: un romanzo storico che è un omaggio al noir al femminile. Di cosa parla?
Siamo nel dicembre del 1938. A marzo la Germania nazista ha annesso l’Austria, dando inizio all’Anschluss e alla valanga di eventi che condurranno alla Seconda Guerra Mondiale (e quanto è tristemente attuale tutto ciò, purtroppo). Britta Sommer, figlia di un ricco e spietato industriale austriaco, è in viaggio col padre e il fidanzato, Rudi, astro nascente del partito Nazionalsocialista, verso Berlino, dove il loro matrimonio è l’evento mondano più atteso del Reich. Almeno in apparenza, Britta ha tutto quello che una ragazza di buona famiglia potrebbe sognare: ricchezza, bellezza, posizione sociale. Ma lei ha altre aspirazioni: legge Sartre, si interessa di calcio, di musica, di politica, di tutto ciò che possa stimolare la sua fervida curiosità. Una nevicata eccezionale bloccherà la famiglia Sommer, insieme a una babele di altri personaggi di varia provenienza, in un lussuoso resort di confine, La Dimora degli Dèi, appunto. E qui, l’incontro con un anziano gentiluomo polacco cambierà per sempre il destino di Britta. Nel mio romanzo i generi si mescolano e si confondono: si passa dal giallo in stile anglofono al thriller, dal noir alla letteratura di genere. Non mancano i colpi di scena e i falsi indizi, come anche l’eterno dilemma dell’omicidio commesso in una stanza chiusa dall’interno: ho voluto sfidare il lettore a dimostrare come l’impossibile possa essere stato possibile, per dirlo alla Agatha Christie.
Un romanzo, dicevamo, scritto durante l’isolamento in casa dovuto alla pandemia. Quali emozioni ti hanno attraversato in quel periodo che ha messo a dura prova il nostro paese e non solo?
Quando è scattato il lockdown stavo per debuttare con lo spettacolo “Lezione da Sarah”, il film “Permette? Alberto Sordi” era nelle sale e mi preparavo a una tournée col Teatro Bellini. Era un periodo lavorativo estremamente felice, e non posso negare di aver preso molto male la notizia della chiusura. In più, io vivo a Roma, ma la mia famiglia a Milano: non sapere quando li avrei rivisti mi angosciava profondamente. Dopo qualche giorno di sconforto, però, ho deciso di reagire: avevo bisogno di un atto creativo, di qualcosa di positivo che canalizzasse le mie energie. E così, quasi per gioco, ho iniziato a scrivere “La Dimora degli Dèi”, pensando che sarebbe diventato un breve racconto. Ma l’ispirazione mi ha travolta, incatenandomi alla tastiera per dieci ore al giorno, studio escluso. Non la ricordo come una sensazione piacevole, piuttosto come una forza violenta, quasi ossessiva, che si è impadronita del mio tempo e dei miei pensieri. E, quando ho scritto l’ultima frase dell’ultimo capitolo, mi sono resa conto di due cose eccezionali: il lockdown era finito, e avevo scritto il mio primo romanzo.
Questo tempo che ho spesso definito “sospeso” tra restrizioni e paure, nonostante una prima fase di chiusure, dove l’arte in generale ha pagato un prezzo altissimo, sta piano piano ripartendo. Sei tornata protagonista sulle tavole del palcoscenico al fianco di Galatea Ranzi con lo spettacolo “Lezione da Sarah”, di cui hai firmato anche le musiche originali. Che esperienza è stata?
Sono particolarmente affezionata a questo spettacolo, per varie ragioni. Innanzitutto, è la prima pièce teatrale di cui firmo interamente le musiche originali, che ho anche eseguito al pianoforte. Quindi è un lavoro che mi ha coinvolta su vari fronti, dal punto di vista artistico. L’altra ragione per cui adoro Lezione da Sarah è che è una palestra che qualsiasi attrice sognerebbe di fare. Il testo, sulla falsa riga dell’Elvira di Jouvet, ma tutto al femminile, mette in scena la divina Sarah Bernhard (l’altrettanto divina Galatea Ranzi) alle prese con una giovane, inesperta e timidissima aspirante attrice, Marie (ovvero la sottoscritta). Le due, attraversando di atto in atto tantissimi capolavori della drammaturgia, da Shakespeare a Corneille a Racine, a metteranno in scena una vera e propria lezione di Teatro, coinvolgendo anche il pubblico. E la spaurita Marie, pungolata, torturata, erudita ma anche accompagnata con affetto dalla Bernhard, riuscirà finalmente ad affrontare con successo il monologo di Fedra, grande spauracchio di qualsiasi artista, e potrà cominciare il suo percorso di attrice. La sfida vera di questo spettacolo, almeno dal mio punto di vista, è dover calibrare lo stile recitativo di Marie, passando da una legnosa inesperienza a una eloquente scioltezza, in un’ora e un quarto!
Sei stata Giulietta Masina nel film “Permette, Alberto Sordi?” diretto da Luca Manfredi, al fianco di uno straordinario Edoardo Pesce. Ti rivedremo prossimamente sul piccolo/grande schermo?
Si, ho avuto l’immenso onore di interpretare la titanica Giulietta (e non uso questo termine a caso: Giulietta, nonostante la sua piccola statura, era veramente un gigante) per la prima volta, perché non era mai stata rappresentata né in televisione né al cinema. Ho sentito tantissimo il peso di questa responsabilità, ma grazie allo studio e all’aiuto del regista Luca Manfredi e di tutto il cast sono riuscita a calarmi completamente nei suoi panni: dai primi passi in radio all’amore per Fellini, dal dolore immenso per la perdita del figlio al sodalizio con Sordi. È stato un viaggio stimolante ed emozionante nella vita di un piccolo grande genio. Tornerò a breve sul piccolo schermo nei panni di una suora, al fianco di Paola Tiziana Cruciani, con cui avevo lavorato anche in “Permette? Alberto Sordi”.
Ma non posso svelare di più.
Milanese di nascita, ma poi Roma dove se non sbaglio vivi ma soprattutto lavori, cinema e teatro, ma anche Napoli, e al meraviglioso Teatro Bellini. Mi piaceva chiederti del tuo rapporto con la città e con la regione Campania.
Ho vissuto un po’ ovunque, ma alla fine mi sono fermata a Roma, per amore ma anche per lavoro. Però credo che, se non avessi conosciuto il mio compagno, Sebastiano Gavasso, forse mi sarei trasferita a Napoli, città che ho amato con tutto il mio cuore e che ho imparato a conoscere fin da ragazzina, quando il Teatro Bellini mi chiamò per interpretare Rosetta ne “La Ciociara”, diretto da Roberta Torre, al fianco di Donatella Finocchiaro e Daniele Russo. Un’esperienza artistica e umana intensissima che mi ha segnata profondamente. Io lavoravo al Piccolo Teatro, all’epoca, ero in tournée con Giulia Lazzarini e Andrea Jonasson, ma ho lasciato tutto e mi sono buttata a capofitto in questa avventura. E ho fatto bene! Perché dal 2009 ad oggi ho lavorato col Teatro Bellini in tantissimi, meravigliosi spettacoli: siamo stati i primi a portare in scena Arancia Meccanica, per altro con le musiche di Morgan; mi è rimasta nel cuore Tamora, del Tito Andronico, che ho interpretato al Teatro Argentina nel 2019 per la regia di Gabriele Russo. E poi Some Girl(s) di Neil LaBute, Odissè, L’Otello, Il Giocatore di Dostoevskji e tanti altri.
Permettimi in chiusura una metafora: nel futuro artistico (teatrale, cinematografico, letterario e musicale) Martina si vede più lanciata come su una veloce pista d’atletica, o più attenta a dosare energie e sforzi come sulla lunga distanza di una maratona? La metafora è legata ad un’altra tua forte passione, quella per lo sport …
Amo dire che chi si ferma… si annoia! Sono una persona molto attiva e riesco a vivere soltanto a grande velocità. Non a caso nasco velocista, la mia passione per il running su lunga distanza è arrivata col tempo. Infatti, come sai, sia io che il mio compagno, Sebastiano Gavasso, oltre a condividere la passione per la recitazione condividiamo quella per la corsa. Lo trovo uno sport meraviglioso e poco indulgente: ti lascia solo con te stesso e con la tua fatica, ti permette di perderti in zone della tua mente che non conoscevi, ti obbliga a gestire la noia e l’ansia, ti spinge a superare limiti che pensavi invalicabili, ma riesce anche a non farti sentire mai solo. Mai. La comunità dei runner è una grande famiglia di atleti che, a tutti i livelli, decidono di competere con se stessi, non contro gli altri: è una rete fatta di persone che si vogliono bene senza conoscersi, c’è una grande solidarietà reciproca. Tornando alla tua domanda, il mio problema è più che altro l’eccesso di energie! Ho sempre bisogno di essere impegnata in qualcosa, e se non è la recitazione è la musica, la composizione, oppure la scrittura, lo sport, la lettura. Credo che sia un preciso dovere degli artisti, quello di continuare a studiare e a formarsi sempre, anche a novant’anni. E io ho bisogno di creare. Sempre.
credits ph. Martina Galletta; copertina Raffaello Balzo